Pietro VERZINA, Studi su niente, Digressioni Editore, Udine 2021

 

L’opera di Pietro Verzina, Studi su niente, Digressioni Editore, Udine 2021, ha vinto il secondo premio del “Concorso letterario nazionale Forum Traiani” nella sezione “narrativa” ma, per quanto sia anche edito in una collana di “Narrativa”, pone al lettore delle domande proprio sul suo genere di appartenenza (nel significato aristotelico). Infatti, la narrativa sembrerebbe esservi negata dall’assenza di caratteristiche che la contraddistinguono: un protagonista, l’organizzazione unitaria del tempo e dello spazio (quello che una volta si chiamava il cronotopo), in funzione, se non di un acme narrativo storicamente superato, almeno della stabilità e riconoscibilità della materia trattata: a tutto vantaggio dell’analista uso a collocare l’opera in un genere, per non parlare dei diritti del lettore, delle attese e delle sue tranquille abitudini (inappagate, e ciò sia detto a merito dell’Editore). L’autore disattende certo tali aspettative, peraltro antiquate, ma non è detto che non le rimpianga e non le riaffermi rinnovandole creativamente, nel mentre che le nega.

In Studi su niente Il racconto di finzione investe anche la scrittura scientifica e ne mutua lo statuto ma di entrambi restano solo gli involucri rovesciati: l’atto del narrare crea l’avvenimento, anche quello scientifico che diventa tale perché viene raccontato, consegue la propria credibilità, grazie alla sua narrazione assurta a laboratorio e vetrina scientifici.

L’indice del volume, di per sé un capitolo metanarrativo, dissacrante parodico catalogo di titoli di tesi e ricerche accademiche,[1] e il vertiginoso, quanto inconsueto (in un’opera narrativa) apparato delle note possono confermare queste osservazioni e anche arricchire l’elenco delle qualità non romanzesche dell’opera; eppure in quegli stessi titoli, che certo non eludono il bachtiniano plurilinguismo romanzesco, si delinea anche l’unitarietà del racconto, la collezione dei personaggi, l’odissea di un protagonista unico, nelle sue metamorfosi e travestimenti, che si aggira nel caos non dello spazio-tempo ma dei labirintici rapporti di potere all’interno delle istituzioni culturali e didattiche assurte a inesplorati continenti, nella insospettabile futilità celata dalle varietà e frammentazione dei saperi, degli pseudo saperi, nell’albagia della ricerca volta ad affermare primati e consolidare poteri: un individuabile scenario da cui emerge la serietà unica di muoversi al suo interno con le migliori intenzioni e disposizioni intellettuali, con la forza e la tenacia che soggetti giovani possono attivare attingendo alla passione e alla sofferenza, forse a una coraggiosa esposizione autobiografica celata dietro il «niente» che viene rappresentato quale oggetto narrativo, percorso conoscitivo, esistenziale, viaggio privato e pubblico nel “mare di un’oggettività” ancor più pericolosamente affiorante non solo nelle cose ma, dopo molti decenni dall’efficace definizione, anche nei comportamenti degli uomini, a rendere l’approdo dell’autore tanto inopinato quanto inquietante, meta deviata di una lunga attesa e immeritato smacco di una appassionata ricerca. Senza trascurare, dopo tale affrancamento, la duttilità e la forza di trasformazione propri del genere romanzo, non a caso geneticamente radicato nell’ascesa della tenace classe borghese.

Eppure, quel naufragare niente affatto dolce si compie nel più esilarante racconto che solo dal tragico può scaturire quando precipita nel suo contrario. In ogni capitolo si insediano degli io-egli che, attraverso le loro vicende e le voci delle pseudo autocitazioni in stile “comico”, contribuiscono a costruire un eroe unitario, in sordina ma con le sue caratteristiche fisiche, le sue passioni, preferenze, idiosincrasie, sconfitte, vittorie e persino uno o più nomi: certo un eroe del Niente e del Nulla ma discendente dall’illustre stirpe dei Don Chisciotte e  dei Giovanni Drogo.

Molte le ottiche con cui interrogare il romanzo (?). La scrittura di Verzina è una sontuosa messa in scena, un palcoscenico barocco che rimanda continuamente ad altri scenari e relativi allestimenti. Il risultato è una biblioteca o enciclopedia del Niente, addensata intorno al concetto di indecidibile: assurto a barriera e sprone della ricerca scientifica.

La realtà narrata chiama un nichilismo nutrito di aporie ontologiche – giusto per fare il verso all’autore ma con seria convinzione – : l’essere si capovolge in non essere e la dialettica vero falso campeggia in categorie temporali sospese, quanto il tempo della scienza che mette in forse l’esistenza del tempo stesso. Ma nell’indifferenza del tempo e dello spazio, l’uomo in tutte le sue espressioni, fisiche e metafisiche, intuisce che il presente è sempre anche passato e futuro, suo e dell’universo.

L’autore sa bene di aver compromesso le possibilità di recensione della sua opera, poiché il lettore “critico” diventa il primo naturale bersaglio di una scrittura colta, pensata per rinnegare se stessa ma, al contempo e in primis, per distinguersi dalla corriva narrativa che ci sommerge al pari di ogni altra merce: materiale e culturale.

Astrazione assoluta di un romanzo profondamente realistico, modello raffinato di come trasformare in materiale narrativo una professionalità insieme specialistica e multiforme, una tenace volontà di attraversare e mescidare le proprie conoscenze e le proprie passioni.

Allora, recensione provvisoria e non conclusa a Studi su niente, e per ciò stesso lettura infinita: l’enciclopedia aggiornabile è la definizione più vicina a questo testo nascosto dentro un altro testo e così di seguito lungo i molto eloquenti capitoli che coprono numerose branche del sapere, con ritornante insistenza sul suono e sul ritmo, motore e senso di occorrenze artistiche e conoscitive che ne riassorbono anche le manifestazioni patologiche. Tutto si origina da schemi metrici che ossessivamente percorrono l’operetta e ne sono il motivo ispiratore: ricomporre qualcosa che è andato in pezzi, ricreare un universale ritmo perduto mutuando dalla ricerca scientifica il metodo analitico, le convenzioni, i tic e i cerimoniali, con il bagaglio di fatica e pena che essa comporta, e insieme smascherando l’insulso, il ridicolo e la menzogna di cui l’ammanta l’establishment accademico.

Lo spirito ludico pervade tutta la narrazione, attraversa le più spericolate espressioni del sapere e impedisce di discernere il vero dal falso: dalle complesse elaborate operazioni matematiche di transcodificazione, ai fantasiosi, fantomatici e allettanti titoli che fanno scempio della Storia (dalla STORIA DEL CAFFÈ alla STORIA DEGLI STORICI FUTURISTI CONGOLESI). Questo il  fondamentale stilema dell’opera, a fronte di un senso onnicomprensivo: la critica all’accademia, questa sì non ludica ma sofferta e elevata a meditazione esistenziale.

Per quanto Verzina tocchi picchi tanto esilaranti quanto realistici: «poteva vantare anche la morte nel suo curriculum» (201) (come sa ogni membro di qualsivoglia commissione accademica, quel lasciapassare, attuale ossessione della burocrazia elevata a genere umano, da grimaldello per aprire tutte le porte è diventato esibita miseria di laureati, aspiranti dottori di ricerca o di ruoli accademici, proni nel vantare il possesso della “patente A e B”, naturalmente in conformità alle norme europee), facendo ruotare tutta la narrazione intorno alla devastazione cattedratica di ingegni e coscienze usi anche a «dedicarsi a tempo pieno a essere acerrimo nemico di», sarebbe tuttavia troppo semplice e riduttivo riportare l’opera a una polemica, per quanto non sterile, su vizi e misfatti dell’accademia italiana, esaltati dalla più dissacrante fedeltà all’«Etica scientifica» e alla «Sacralità del sapere» (257).

Il sogno marinettiano di racchiudere il mondo in una rete analogica, se non anche il De lampade combinatoria lulliana di Giordano Bruno, trovano una consona realizzazione nel romanzo enciclopedico di Verzina. Più prosaicamente, l’aspirazione di ogni ricercatore a far tornare i conti dell’ipotesi di ricerca, costata troppi anni di laboratorio, è finalmente realizzata sbaragliando, con foga iconoclasta, gli argomenti a contrario; la bibliografia, soprattutto quando manipolata e inventata, non è più una barriera, una noiosa molesta interlocutrice ma una sorniona alleata, anche la storia della tecnica e delle sue invenzioni può trovarvi la propria soddisfazione e un onesto piacere. L’illacrimata serietà analitica del sinologo, del papirologo, dell’archeologo di qualsivoglia epoca e paese, e perfino la vanità del critico letterario, il dilettantismo di quello artistico, il balbettio infantile di quello cinematografico e l’obbligata consapevolezza di quello musicale, in questo delizioso libro raggiungono la loro apoteosi ché, al confronto, impallidisce quella di Tiepolo (ancora per fare irriverenti imitazioni, al traino dell’autore).

E non i soli specialismi del passato e le tante branche dei trascorsi saperi trovano nel libro la loro collocazione ma, attualissimo, esso si allinea con il sapere di tutti i saperi, col finalmente raggiunto sapere universale e alla democratica portata di tutti: le fake news. Qui sta la differenza, non frutto di fuorviante ignoranza e intenzionale maldicenza, al contrario, raffinato prodotto di conoscenza e approfondimento tali da consentirne la parodia nella materia e nei metodi interpretativi.

L’intento è certo raggiunto e poco importa, se non forse all’autore, la veridicità o meno delle allusioni nelle vicende narrate, a noi interessa la materia che ha saputo elaborare e trasmettere questo aggiornato heautontimorumenos, il punitore di se stesso, ovvero, nella ironica versione verziniana:  il «copiatore di se stesso» (198). Testo nascosto dentro un altro testo, all’infinito, la scrittura di Verzina è una spericolata e rocambolesca citazione infinita: i libri, tutti i libri sono stati già scritti (da Borges, in primis), al narratore non resta che citarli e reinterpretarli, nella riscrittura e nell’azione critica ininterrotta rappresentata da ogni lettura, dalla creazione in avanti: il libro della citazione infinita, la sua parodia guardano all’illimitato, all’infinito.

Studi su niente è un libro intenso e commovente, per la capacità di rappresentare, con la parola NIENTE,  il sapere, la vita accademica che dovrebbe coltivarlo e tutelarlo, i processi della ricerca, da cui Verzina fa proliferare un capolavoro di sintesi, una sofferta meditazione, una risposta fantastica ai tanti interrogativi che non ne hanno, nella ferma convinzione che «scrittura scientifica e finzione letteraria non conducono a due diversi tipi di verità, dato che esiste una sola verità da raggiungere, né sono l’una dall’altra distinguibili» (254).

 

                                                                                               Giovanna Caltagirone

 

[1] Li elenco: IPOTESI SPECULATIVE SULLA CHP247; STORIA DEL CAFFÈ; CONSIDERAZIONI INTORNO ALLA COSIDDETTA CONFERENZA UNIVERSALE DEGLI ONIRONAUTI; FONDAMENTI DI LINGUISTICA E FILOLOGIA MARINA; IL MARCESCENTE CINEMA DI NORMAN P. DRAGON; BAD EPICS: STORIA E ASPETTI TECNICI DI UNA SCOPERTA EPOCALE NEGATA; L’INAFFERRABILE BELLEZZA DELL’AISCHROPTERA MATHUSALA; STORIA SEMIROMANZATA DEL PAPIRO DI RUSPIČ; STORIA DEGLI STORICI FUTURISTI CONGOLESI; NOTE A MARGINE DI UN MIO LIBRO SU DON RAPELELLE; DUE CASI DI UTERO IN AFFITTO; SUGLI ACUFENI; RECENSIONE A UN LIBRO DI LUIGI TREVINACCIO; STUDI SU NIENTE.

CRISTIAN BISSATTINI, Elagabalus. Il bene e il male, il maschile e il femminile, Vertigo Edizioni, Roma 2021

 

Il fantasma dell’imperatore romano Elagabalo si aggira ancora fra noi grazie all’opera di Cristian Bissattini, Elagabalus. Il bene e il male, il maschile e il femminile, Vertigo, Roma 2021. È dagli inizi del III secolo d.C. che questa affascinante figura attraversa i secoli: oltre che oggetto della storiografia, è stata una straordinaria suscitatrice di interesse per scrittori (soprattutto in epoca romantica, ma fino a Antonin Artaud), pittori, musicisti. Un fascino in cui si intrecciano molti fattori fra i quali Bissattini sceglie di privilegiare la complessa figura umana, multiforme e ossimorica per genere, inclinazioni sessuali, relazioni parentali e conseguenti manifestazioni di autorità come di dipendenza; il saggio  percorre le scelte politiche che ne discendono, tanto radicali nella loro estraneità alla politica corrente dell’impero romano da rivelarsi dirompenti rispetto ai limiti fra umano e divino propri della tradizione e della cultura latine; il giovanissimo imperatore li oltrepassa ibridando le due dimensioni e, specificamente, i simboli sacri e contrapposti dell’area marziale e di quella attinente la verginità e la fecondità. L’autore percorre le fonti storiografiche, tendenzialmente avverse e spinte fino alla decretata damnatio memoriae del personaggio, causa la negazione dei comportamenti virili della romanità, primo tra tutti il ripudio della guerra (p. 15). La rottura del mos maiorum è tracciata in contrasto con i noti particolari orgiastici, ponendo non pochi interrogativi sull’apparire del culto solare annunciato dal sacerdote imperatore.

Il centro della rivoluzione, dello scandalo e della ignominiosa rovina di Elagabalo viene spostato sulla sostituzione dell’economico culto della guerra, elemento portante della romanità, con un culto religioso del sole, di cui l’imperatore è sacerdote e della divinità veste la sua stessa persona. Uno fra i tanti culti orientali che segneranno le sorti di Roma, come era ormai manifesto dall’affermarsi del Cristianesimo, col conseguente indebolirsi della religione politeista dei padri ma anche con la lotta fra cristianesimo e culti orientali, quello di Iside in primis, il cui esito, ancora nel II secolo d. C., appariva incerto.

Savinio rappresenta la musa della Storia, Clio, come una figura che porta con sé una porta aperta e chiusa sugli avvenimenti a scoprire scenari sempre nuovi: è quanto ha fatto lo studio di Bissattini che, non specialista ma forte della condizione di cultore della materia trattata, ha saputo guardarla anche da un’ottica inconsueta, arricchendo il lavoro di onesta ricerca, basato sull’analisi rigorosa di fonti antiche e moderne, con la creatività e la passione che gli consentono di reinterpretare il personaggio di Elagabalo, nonostante le vistose patologie criminali, avanzando delle scusanti anche contro una tradizione storiografica consolidatasi nei millenni nel farne l’emblema della trasformazione della morale e della politica romane che, in realtà, datava dall’importazione dei costumi greci e orientali ma, soprattutto, dall’affermarsi del dispotismo imperiale, pure di impronta orientale, derivante dallo stretto nesso col potere delle milizie che, non a caso, trucidarono il giovane imperatore-sacerdote in modo infamante e unico nella storia di Roma.

La conclusione cui Bissattini arriva è che Elagabalo «non fu né peggio né meglio di molti imperatori romani» (p. 247), di contro agli storici antichi che deformarono e ampliarono alcuni fatti singolari, non perché immorali in assoluto ma in quanto non in linea con la corruzione “lecita” e accettata tranquillamente come norma non deviante, sia all’interno dei costumi prettamente romani, quanto poi in relazione all’affermarsi della morale sessuale cristiana.

 

Giovanna Caltagirone

 

 

 

Cristian BISSATTINI, Elagabalus. Il bene e il male, il maschile e il femminile, Vertigo Edizioni, Roma 2021, [pp. 275, € 17,50]

 

Nell’introduzione al suo saggio (pp. 12-17) Cristian Bissattini parte da premesse molto generali, richiamando il concetto di uomo come microcosmo e l’idea dello spirito umano come espressione della polarità di due opposti principi. L’imperatore Elagabalo è ritenuto esemplare manifestazione di questa dualità, che Bissattini esamina in un libro che è a metà tra saggio divulgativo e rilettura speculativo-filosofica di un personaggio della romanità non tra i più celebrati nella cultura di massa, anche se ben noto, così come tutta la sua epoca, a un certo gusto decadente che l’autore richiama diffusamente per mezzo di interessanti sondaggi sulla ricezione della figura nella letteratura contemporanea. Spesso questa ricognizione non è nettamente distinta, nelle sue funzioni, dal materiale antico (un buon esempio, tra i molti possibili, è già nel primo capitolo, dove la presentazione della figura dell’imperatore è affidata a testimonianze di autori come Erodiano e Cassio Dione citate accanto a ritratti dell’imperatore presi da Héliogabale di Antonin Artaud e da un romanzo di Alfred Duggan, pp. 19-23; un altro nel cap. V, dove le notizie di Lampridio sui banchetti dell’imperatore sono affiancate alle suggestioni di Swift, Manzoni e Vonnegut, pp. 179-180); tuttavia questo appiattimento cronologico e tipologico delle fonti, che potrebbe sembrare un’anomalia in un saggio storiografico, diviene pienamente comprensibile se si considera il reale scopo del libro, il quale non ambisce a proporre una classica ricostruzione di una realtà storica corredata da un prospetto sull’evoluzione della sua percezione nelle epoche successive, quanto alla rappresentazione in assoluto di un’immagine quasi archetipica e atemporale che fruisce di tutte le sue manifestazioni materiali e spirituali, cioè storiche e letterarie — una più serrata e circoscritta critica delle fonti antiche è comunque presente nell’ultimo capitolo, pp. 225-248. Un approccio, quindi, originale nella sua tendenziale asistematicità, che fa sì che in alcuni punti l’esposizione tenda ad avvicinarsi, in termini di tipologia testuale, al summenzionato scritto di Artaud, opera richiamata spessissimo nel saggio, mentre da un altro lato rimane aderente al criterio dell’argomentazione storiografica, che si avvale sia di bibliografia primaria che secondaria e ricorre, in alcuni casi, ad interessanti apporti originali (ricostruzioni iconografiche, dati ricavati da immagini satellitari etc.).

La finalità interpretativa e la prospettiva di ricerca convivono costantemente nel libro con l’approccio divulgativo, il cui segno più evidente sono le diffuse ed estese digressioni, vere e proprie appendici interne che vanno quasi sempre al di là della mera funzione di supporto alla comprensione del milieu in cui visse il protagonista e che non si limitano a fornire prospetti, spesso di carattere onnicomprensivo, sulla civiltà romana nel suo complesso (vedi ad esempio il lungo paragrafo sulla prostituzione, con molte citazioni tratte dai graffiti pompeiani, pp. 35-53, o quelli sul matrimonio, pp. 161-166, l’omosessualità, pp. 166-171, l’abbigliamento, pp. 175-179, la cultura culinaria e le abitudini alimentari, pp. 181-185, 187-191 etc.), ma si estendono ad aspetti non direttamente legati all’antichistica (come il paragrafo che presenta l’odierna città di Homs, l’antica Emesa, dando conto delle sue vicissitudini nel contesto della guerra civile siriana, pp. 65-67) e ad altri che, in ogni caso, potrebbero avere valore comparativo in termini antropologici, anche se questa finalità non sempre viene esplicitata (vedi ad esempio il breve paragrafo sulla pratica della castrazione dall’antichità ai giorni nostri, pp. 112-117, che prende in considerazione gli evirati cantori settecenteschi, gli eunuchi delle Città Proibita di Pechino e la pratica della mutilazione genitale nei paesi africani contemporanei, con osservazioni di carattere sociale e sanitario; o quello sulle falloforie, pp. 126-130). La varietà e lo sviluppo degli elementi di contorno danno al saggio quasi l’aspetto e il carattere di un meticoloso e ben documentato compendio sulla cultura materiale romana, con particolare riferimento alla sessualità, cui si accompagna un puntuale corredo terminologico e una selezione delle evidenze letterarie e, in alcuni casi, epigrafiche, numismatiche e archeologiche.

Queste digressioni più accessorie vanno comunque di pari passo a un’organica presentazione del contesto imperiale romano nella pima metà del III secolo d.C. e dell’ambiente siriano in particolare, fondamentali per leggere la figura di Elagabalo in un’ottica storica, il tutto intervallato alla narrazione quasi annalistica del suo breve regno, che costituisce l’ossatura portante del libro. Bissattini propone una nutrita galleria di personaggi ed episodi, mostrando spesso un senso dell’evento più forte del gusto per l’aneddoto e premurandosi di districare l’oggetto della sua narrazione dai giudizi tendenziosi o moralistici che hanno contribuito a costruire un’immagine parziale del giovane imperatore e a tramandarla attraverso i secoli. L’autore è attento a questi aspetti e il suo atteggiamento al riguardo si mantiene rigoroso. Ciò non vuol dire che il fascino misterioso del personaggio e del suo ambiente non venga valorizzato: il procedere passo passo attraverso le fonti si apre volentieri, a volte, alla suggestione della narrazione romanzata, senza mai, tuttavia, sconfinare nel narrativo propriamente detto e quindi nell’invenzione, avvicinandosi, in questo, ad opere come Alexander the Great di Robin Lane Fox.

Il materiale antico in lingua originale è sempre corredato di traduzione. Non sono presenti rimandi bibliografici in nota, ma le ultime pagine comprendono una bibliografia finale comprensiva di sitografia (pp. 252-262), un piccolo dizionario dei nomi (pp. 263-272) e un indice delle illustrazioni (p. 274).

 

Pietro Verzina